scene Salvo Manciagli
costumi Riccardo Cappello
Attraverso una visione distorta della realtà, popolo e nobiltà si chiudono in una gabbia di pulsioni necrofile. Il Consiglio d’Egitto, tratto dal romanzo di Sciascia, narra le vicende parallele di due “rivoluzionari” ante litteram nella Sicilia della fine del XVIII secolo. Un parroco, l’Abate Vella, con qualche nozione di lingua araba, si inventa di sana pianta alcuni documenti risalenti alla dominazione araba in Sicilia, (il Consiglio di Sicilia ed il Consiglio d’Egitto) dai quali sembra desumersi che molte delle proprietà della nobiltà sono state frutto di usurpazioni ai danni della corona del Re di Napoli. Un colto avvocato sposa la causa giacobina tentando, senza successo, di sovvertire l’ordine costituito dall’oligarchia nobiliare e dal viceré compiacente.
Don Vella viene incaricato dal monsignore di Palermo di tradurre un antico codice arabo, ma scoprendo che contiene solo informazioni sulla vita di un profeta, decide ugualmente di portare avanti un imbroglio per ricavarne benefici personali e denaro. Escogita un artificio: il codice è scritto in un alfabeto raro, il carattere “mauro-siculo” che solo lui conosce e può tradurre. Da qui si sviluppano degli eventi che portano lo spettatore alla risata, ma anche alla riflessione. Infatti, momenti ironici e sarcastici si alternano a quelli di profonda intensità e serietà. La finzione è usata da Vella per rispondere all’impostura con la stessa impostura. “Il Consiglio d’Egitto- spiega Guglielmo Ferro- è un universo allegorico in cui la morte indossa la maschera della vita e la vita quella della morte”.
Il protagonista, Don Vella entra a far parte del potere con l’astuzia, ma ne viene travolto. Vive tra l’imbroglio e l’opportunismo e non esita a far cadere sospetti sul fidato collaboratore Camilleri. Lo spettacolo mette in evidenza le differenze tra ricchi proprietari e poveri, tra colti e ignoranti, che in fondo sono tutti accomunati dal degrado morale. Il popolo, derubato dal ricco Viceré, pensa a giocare al lotto, non curandosi della sua effettiva situazione e delle nuove idee rivoluzionarie che giungono nell’Isola. C’è un’ironia sui nobili siciliani e sui loro privilegi feudali che generano soprusi e contrastano con le ideologie di Voltaire. L’imbroglio si scioglie solo quando i nobili comprendono che la vera minaccia per loro è rappresentata dall’arrivo dei giacobini in Sicilia e non dalle carte false di Vella. L’opera ingannevole dell’abate diventa metafora di verità. Considerando la storia, al di là del testo teatrale, si scopre che è ancora di grande attualità.